Questo epilogo di 2005 non è stato delicato per i profughi sudanesi presenti in Egitto. Quasi una trentina di loro, accampati per tre mesi in un sit-in di protesta sopra una piazzola verde del Cairo, hanno trovato la morte in violenti scontri con le forze dell’ordine egiziane. Molti altri sono stati feriti o travolti dalla ressa impazzita, che divorava la piazza Mustafa Mahmoud nel quartiere bene di Mohandeseen.¨ Ma non sono i morti che ci devono fare riflettere. Non è solo l’inaudita, intollerabile violenza della sicurezza egiziana – schierata per un intervento anti-sommossa contro inermi rifugiati indifesi – che ci deve fare indignare. È l’atteggiamento che accompagna, e continua ad accompagnare, la tragedia sudanese. Chiedono, i profughi sudanesi riparati al Cairo, di essere riconosciuti ufficialmente come tali, e quindi di poter riparare in un paese terzo che non sia né il Sudan né l’Egitto. E come nelle peggiori fantasie di Mahfouz, anche la loro realtà ha un lato beffardo. Ed è il fatto che profughi, ufficialmente, non lo sono più. Una parvenza di pace è stata firmata fra Nord e Sud del Sudan, nelle scorse settimane, e quindi il loro statuto di “disperati privilegiati” non è più tale: ora i sudanesi d’Egitto sono solo “disperati disperati”. In questa situazione, anomala e crudele (una situazione in cui la pace diventa, paradossalmente, una maledizione), il loro destino non ha orizzonti. Se tornano in Sudan dove le garanzie di tenuta della tregua sono minime, rischiano la morte o la fame o l’emarginazione sociale. Se restano in Egitto vengono trattati alla stregua di eccedenze a cui non è concesso alcun diritto, né ovviamente alcuna opportunità di lavoro. La terza opzione è dunque l’unica rimasta loro per dare un senso alla speranza: essere accolti negli Stati Uniti, in Europa o in Australia. Ma nessuno di questi tre continenti ha trovato spazio per loro. Sono circa 10 mila in tutto (2 mila 500 erano quelli che si trovavano sulla piazzola al momento degli scontri). Nessun paese della terra è riuscito e riesce a dare loro ospitalità. Un’aiuola di 100 metri quadrati è il loro ultimo purgatorio possibile, proprio di fronte alla delegazione dell’Onu per i rifugiati. Come hanno reagito gli egiziani a questo scempio, al massacro degli agenti? C’è chi ha scritto di una mobilitazione generale. Balle! In realtà, oltre ai comunicati ufficiali e dovuti delle organizzazioni non governative – in particolare di quelle sui diritti dell’uomo – nessuno ha mosso un dito. A manifestare di fronte alla piazzola il giorno dopo c’era soltanto una ventina di rappresentanti del movimentio Kefeya (cioè “Adesso basta”) che più che altro rappresentavano il loro progetto politico di opposizione attraverso la tragedia sudanese. Il resto era un desolante occhieggiare curioso, quasi divertito. Ho sentito frasi che avrei preferito non udire: «In ogni caso, i sudanesi sono un popolo sporco». Detta con quel velato senso di vergogna che non la vince contro l’ancestrale razzismo contro i neri e gli “africani”. Poiché anche qui in Egitto – che per noi è così a sud da poterlo difficilmente immaginare razzista – imperversa il razzismo che è di tutti i popoli. Anche qui, dove il grigio-marrone delle pelli si fa un onore di fronte al nero, al mulatto, e dove sudanesi ed etiopi, eritrei ed africani dell’Africa nera in genere, sono trattati alla stregua di creature inferiori. Un razzismo da brivido, a volte. Come quell’estate in cui un bagnino in un albergo del Cairo mi disse: «Non buttarti in acqua! L’ha appena sporcata quella etiope!». E mi mostrò una (bella, devo dire) ragazza etiope che sguazzava in piscina. Esempi, si dirà. Ma così eloquenti come lo sono stati questi sorrisetti solo per metà increduli e per metà invece sollevati che si potesse consumare di nuovo la preghiera del venerdì alla moschea adiacente la piazzola. Esempi che dimostrano come la vita che lì, in quell’aiuola, era rimasta, nella forma di cibi per bambini e scarpe abbandonate, di diari e foto gualcite, di coperte e calzettoni impastati di fango, quella vita lì sarebbe comunque potuta tornare solo per non essere mai altro che una vita a metà. Una vita oltraggiata. Che oltre allo sdegno per quanto hanno ancora fatto le forze dell’ordine egiziane merita lo sdegno più alto. Quello che si indigna per quanto si continua a fare, nell’incultura del razzismo, contro questo popolo votato alla tragedia ovunque vada e chiunque trovi sul suo cammino. Che si possa avere pietà dei figli dei poliziotti di cui parlava Pasolini, certo. Ma che sia ragione di disonore per un paese civile che costoro ammazzino chi ha ancora meno vita di un cane randagio e speranza di un cane ammalato.

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13.01.06

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