Qual è la montagna più alta d’Abruzzo? Il Gran Sasso, direte. E invece no, è Colle Oppio. Colle Oppio è la sezione fascista, già Msi, che è stata la palestra dello squadrismo romano, dove si sono formati il vecchio e nuovo presidente dell’Abruzzo Marco Marsilio e la sua comandante con l’elmetto Giorgia Meloni. Battute a parte, perché c’è poco da ridere, il voto di domenica in Abruzzo ci ricorda che una rondine non fa primavera: il sogno di ripetere il miracolo della Sardegna con la vittoria della candidata di Pd, M5S e AVS si è infranto già prima dell’alba, all’inizio della notte dello spoglio. Marsilio ha staccato di 7 punti percentuali il candidato del campo larghissimo Luciano D’Amico, a cui non è bastato aver fatto il pieno dei partiti d’opposizione al governo per vincere un’elezione che di regionale aveva ormai ben poco. Non sono bastate neanche le gaffe dell’avversario – il candidato delle destre, per scaldare il cuore degli elettori aveva esaltato l’Abruzzo sostenendo che sarebbe l’unica regione italiana bagnata da tre mari, oltre all’Adriatico anche gli improbabili Jonio e Tirreno – né il fatto che nei 5 anni in cui ha distrutto la sanità pubblica ha continuato ad abitare a Roma abbandonando al suo destino la regione in cui era stato eletto. Giorgia Meloni ha messo in campo tutte le sue divisioni, ministri e sottosegretari, per dimostrare che il vento in Italia non è cambiato e continua a soffiare nella stessa direzione e a gonfiare le vele della reazione italiana.

 

Cosa è mancato all’ex rettore di Teramo Luciano D’Amico? Sono mancati gli elettori. Non sembri un’affermazione banale, il fatto è che, per realizzarsi, il sorpasso aveva bisogno del voto degli indecisi, dei delusi, di chi aveva smesso – in Abruzzo come nel resto d’Italia – di votare per una sinistra che da troppo tempo ha perso la sua anima. Tanti di quelli che non sono andati a votare non hanno creduto in un effettivo cambio di passo, nel ritorno ai territori, ai bisogni dei più fragili, degli sfruttati, insomma non hanno creduto alle promesse elettorali di uno schieramento unito solo a parole. Il Pd ha ottenuto un buon risultato ma resta alle spalle di Fratelli d’Italia, il Movimento 5 Stelle è andato malissimo e si è fermato al 7%, l’Alleanza Verdi Sinistra è sotto il 4% e il terzo polo di Calenda appena sopra. I voti sognati dalle forze “progressiste” non sono mai entrati nelle urne perché l’astensionismo ha toccato il suo massimo storico sfiorando il 50% e gli analisti hanno già appurato che, dove la disaffezione è stata più alta, sinistre, progressisti e centristi sono andati peggio.

 

Meloni ha fatto il pieno nella sua roccaforte, l’Aquila, toccando il 75% dei consensi e nella costa adriatica i voti a D’Amico non sono riusciti a colmare il fossato. Meloni si è mangiata gran parte dei consensi che cinque anni fa avevano ingrassato la Lega di Salvini precipitata dal 27% a meno dell’8%. Ciò che più colpisce il vicepremier, che è anche la spina nel fianco di Meloni, è che, in una notte dei morti viventi, il partito di Berlusconi ha raccolto quasi il doppio dei voti leghisti, più del 13%. Le pesanti divisioni in politica interna e nella collocazione internazionale anche tra Meloni e Salvini certamente non scompaiono, ma le vittorie come quella abruzzese aiutano ad andare avanti. Le sconfitte invece fanno male a chi le subisce, e quest’ultima raffredda le speranze animate dal voto della Sardegna. La faticosa alleanza Pd-M5S esce indebolita dallo schiaffo abruzzese, anche perché il prezzo più alto è stato pagato da Giuseppe Conte, già dubbioso sulla possibilità di estendere a livello nazionale l’unità con Elly Schlein. E anche dentro il Pd le resistenze neocentriste alle svolte della segretaria rischiano di riprendere fiato.

Il voto abruzzese dimostra che la strada per ricostruire una connessione sentimentale tra le forze d’opposizione e il paese reale è lunga e tutta in salita. Ci sarà una ragione se i delusi della sinistra non vedono sul campo una proposta alternativa a quella della destra fascio-leghista-berlusconiana, per quanto riguarda le politiche sociali e persino la collocazione internazionale dell’Italia? Solo per dirne una, a fronte di una maggioranza di cittadini che ripudia la guerra e condanna la militarizzazione interna e le armi all’Ucraina, oltre l’80% del Parlamento si ritrova sulle stesse posizioni, posizioni opposte a quelle del comune sentire.

 

Il prossimo appuntamento importante è rappresentato dalle elezioni europee di giugno che per loro natura, essendo la legge elettorale proporzionale, non favoriranno l’unità delle opposizioni. Ma prima altri confronti regionali faranno il punto sullo stato di salute della malconcia democrazia italiana messa sotto attacco dalle minacciate modifiche costituzionali con l’introduzione del premierato e dell’autonomia differenziata. Prossime tappe, la Basilicata e il Piemonte dove ancora non c’è un accordo tra Pd e M5S per una battaglia unitaria

Pubblicato il 

12.03.24
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