Economia in ripresa, tasso di disoccupazione in calo, export che torna a tirare: sembra si stia uscendo dalla crisi. Come si è difeso il sindacato in questi anni difficili per l'economia e soprattutto per i cittadini? È l'ora di un primo bilancio. Lo facciamo con Andreas Rieger, copresidente di Unia.

Andreas Rieger, la capacità di mobilitazione è stata un punto di forza del sindacato in questi due anni di crisi. Ma nell'autunno del 2008, quando il sistema bancario fu salvato solo con ingenti capitali pubblici, le mobilitazioni furono deboli, malgrado la diffusa rabbia popolare. A quel momento i sindacati non seppero mobilitare?
Direi piuttosto il contrario. I sindacati sono stati l'unico soggetto che ha cercato di articolare questa rabbia. Ma era una rabbia troppo generica, rivolta contro "quelli là sopra" o contro coloro che approfittano in maniera immorale del sistema economico. Non c'era però un'idea precisa su come si potesse mettere in ginocchio "quelli là sopra". È stata dunque una rabbia impotente. Le prime manifestazioni dell'autunno del 2008 del resto, come quella del 15 novembre in Paradeplatz, non erano contro la crisi, ma contro il potere della finanza.
Perché all'esplodere della crisi i sindacati non riuscirono ad articolare questa rabbia diffusa?
In parte per un diffuso senso di impotenza. In Europa non si è avuta nessuna vera mobilitazione contro i poteri finanziari e gli speculatori. Anche perché sono stati relativamente pochi i piccoli risparmiatori che nella crisi finanziaria ci hanno perso subito i depositi sui loro conti. C'era rabbia, ma non si sapeva dove agganciarla per trasformarla in un movimento sociale. La mobilitazione si è cominciato a vederla sei mesi dopo, nella primavera del 2009, quando le conseguenze della crisi finanziaria hanno cominciato a colpire in maniera diretta i cittadini comuni con i licenziamenti, gli attacchi al sistema di sicurezza sociale, la stagnazione dei salari se non i tagli degli stipendi. È stato su questo piano che abbiamo potuto lanciare la mobilitazione, culminata con la manifestazione del 19 settembre 2009 e centrata sui temi del lavoro, del salario e delle rendite.
Di questi tre temi solo uno è poi stato portato avanti con efficacia, così da vincere la votazione sul furto delle rendite. Gli altri due si sono persi per strada?
Lo slogan della manifestazione del 19 settembre 2009, "Garantire lavoro, salario e rendita", riprendeva quello del 1° maggio. C'era quindi una chiara continuità tematica. Subito dopo la manifestazione è stata lanciata la campagna per la votazione contro il furto delle pensioni. Il problema è che non è stato possibile portare avanti sul piano operativo l'intero slogan della manifestazione, tenendo vivi tutti e tre i temi. Per quel che riguarda i salari siamo solo riusciti ad impedire che vi fossero riduzioni degli stipendi, ma gli aumenti dell'autunno 2009 sono stati nel complesso modesti. Ed era già chiaro in partenza che non si sarebbe potuto ottenere molto di più, anche perché le lavoratrici e i lavoratori in tale situazione difficilmente si mobilitano per i salari. Sul tema del lavoro l'obiettivo era di impedire o limitare i licenziamenti di massa, e qui abbiamo pagato la nostra debolezza all'interno di molte aziende interessate.
Diverso è stato l'esito della campagna a difesa delle rendite del secondo pilastro.
Sul piano delle rendite abbiamo potuto condurre una campagna efficace, coronata dal grande successo nella votazione popolare con oltre il 70 per cento di no. Qui abbiamo verificato che la volontà di azione è più facile da stimolare quando in gioco ci sono le conquiste sociali: è una mobilitazione che fa meno paura che non la resistenza all'interno di un'azienda. La disponibilità a mobilitarsi sembra dunque essersi spostata ancora più nettamente là dove non si devono temere troppe conseguenze a causa del proprio impegno.
La votazione del 7 marzo è così stata la punta massima della resistenza durante la crisi?
Sì. Perché si è riusciti ad articolare in maniera ottimale la questione sociale e la resistenza contro gli effetti del capitalismo finanziario. In definitiva nella votazione sul secondo pilastro la gente non ha votato solo sul tasso di conversione delle rendite: era anche l'occasione per liberare la rabbia e il senso di impotenza nei confronti del grande capitale finanziario, delle assicurazioni e delle banche. Ed ha funzionato. Il popolo ha voluto dimostrare a "quelli là sopra" che non era più disposto ad accettare tutto.
I pacchetti congiunturali varati dalle autorità sono stati modesti: una sconfitta sindacale?
La pressione esercitata sulle autorità non è stata molto grande. Perché la crisi non ha colpito in maniera così consistente il mercato interno come ha invece fatto con l'industria d'esportazione. E se l'industria d'esportazione registra un crollo degli ordinativi del 50 per cento, c'è poco da fare con le misure congiunturali. La Svizzera è salita sul treno in corsa di altri Stati, approfittando in ampia misura dei loro pacchetti congiunturali per il rilancio della nostra economia d'esportazione. E una prima ripresa è arrivata relativamente presto, rendendo più difficile affrontare la questione dei pacchetti congiunturali.
Anche nel campo della riconoversione eco-sociale dell'industria ci si aspettava di più. Ma la crisi non è stata usata come occasione di rilancio tecnologico.
In effetti il risultato è magro, a parte un programma per migliorare l'isolazione degli edifici. È chiaro che in questo campo mancano la volontà politica e le maggioranze per attuarla. È una conversione che senza un minimo di coercizione da parte dello Stato non si può attuare. Ma nemmeno per il futuro ci si deve attendere un cambio di rotta: i consiglieri federali Doris Leuthard (soprattutto) e Johann Schneider Ammann confidano nel mercato anche in questo settore. Del resto è questa la posizione della maggioranza degli imprenditori.
Per l'industria d'esportazione la misura più incisiva è stata il lavoro ridotto. Qual è il bilancio sindacale di questa misura?
Positivo, direi. Il lavoro ridotto è stato usato in maniera massiccia durante questa crisi. All'inizio c'era ancora molta resistenza, padronato e autorità federali continuavano a citare un vecchio studio dell'Istituto d'indagini congiunturali Kof secondo cui il lavoro ridotto non servirebbe a nulla perché non farebbe altro che rinviare gli effetti della crisi. Ma quello studio analizzava una vecchia crisi, durante la quale erano stati spazzati via gli ultimi resti dell'industria tessile svizzera. Un'industria che però aveva già il suo destino segnato, indipendentemente dalla crisi. In questa crisi invece sono state colpite in particolare industrie altamente produttive e redditizie del settore delle macchine. L'interessante è che quando la ripresa è arrivata quasi improvvisa alla fine del 2009, le imprese che in quel momento stavano beneficiando del lavoro ridotto hanno potuto riattivarsi immediatamente ed essere in brevissimo tempo di nuovo totalmente produttive. È il caso delle molte fabbriche svizzere attive nella componentistica per automobili. Lo stesso non è stato invece il caso per le ditte che avevano proceduto a dei licenziamenti, che alla ripresa si sono trovate impreparate. È la dimostrazione di quanto utile sia lo strumento del lavoro ridotto. E sono stati i sindacati a spingere perché lo si adottasse e perché la sua durata venisse estesa. Contro la resistenza dell'Unione svizzera delle arti e mestieri e dell'Unione padronale svizzera, che hanno fatto esitare a lungo il Consiglio federale. Questo è stato indubbiamente un successo del sindacato, che permette oggi a diverse migliaia di persone di avere un lavoro che altrimenti avrebbero certamente perso.
Negli ultimi due anni sono stati pochi i movimenti di lotta nelle aziende che attuavano ristrutturazioni e licenziamenti. Perché?
Per due ragioni. La prima è che nel corso dei decenni le strutture sindacali all'interno delle aziende erano diventate sempre più deboli, come conseguenza della pace del lavoro e del ricambio generazionale. È un problema che riguarda tutti i sindacati, non solo Unia. La seconda ragione è che anche dove abbiamo una buona rete di fiduciari attivi e motivati, è comunque molto difficile mobilitare i colleghi. Si spera sempre che la ristrutturazione tocchi qualcun altro, non ci si vuole esporre per il timore di subirne poi le conseguenze, ecc… Infatti la maggior parte delle lotte si sono viste in aziende destinate a chiudere, dove quindi la gente non aveva più nulla da perdere. Ma questo è un problema noto anche in altri Paesi. Nella stessa  Germania non si sono viste molte lotte interne ad un'azienda. Per noi sarebbe importante che nelle diverse aziende avessimo più persone in grado di organizzare una resistenza interna e che questa non venisse delegata ai funzionari di Unia. È il senso del lavoro di rafforzamento della rete di fiduciari che stiamo portando avanti in Unia, che è per noi la priorità per i prossimi anni.
Che lezioni lascia questa crisi?
La prima è che non si deve mai sottovalutare la capacità del capitalismo di rialzarsi. All'inizio della crisi, due anni fa, tutti dicevano che il capitaismo non sarebbe più stato lo stesso. Che si sia ripreso così in fretta è stata una grossa sorpresa. La seconda è che ci saranno sempre delle nuove crisi e che quindi dobbiamo sempre essere pronti a fronteggiarne una. La terza lezione è che siamo abbastanza bravi sul piano della politica sociale, dove possiamo ottenere delle buone mobilitazioni, ma che dobbiamo rafforzarci ancora nelle aziende e nei rami professionali.
E come valuta la reazione della struttura sindacale alla crisi?
Credo che nel complesso eravamo pronti. Del resto Unia è nato come sindacato per tempi difficili, non per epoche di alta congiuntura: affrontare una crisi è iscritto nel nostro patrimonio genetico.

Pubblicato il 

19.11.10

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