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Le parole
di
Alberto Nessi
Sono a Chiasso, nell'isola pedonale della nuova via delle genti, e mi sento un po' come Jean-Jacques Rousseau nell'isola di Saint Pierre, contento di esistere. Cammino per le strade del paese natale e mi sento in armonia: per continuare con la letteratura, sono una docile fibra dell'universo, come Ungaretti. Poi incontro Claudio, scambio due parole e tutto cambia. Cosa c'è che non va? La solitudine.
Claudio lavorava in banca a Lugano ed è stato licenziato. Ventidue anni di lavoro in banca e un calcio in culo. Ora è in invalidità. Divorziato, vive solo in un appartamento, che d'estate devi tener chiuse le finestre perché sotto quelli dei giardinetti fanno casino fino a tardi e la mattina i rumori cominciano alle sei, quando i camion cominciano a scaldare i motori. Di giorno gira per le strade della cittadina, beve qualche birra, va a giocare a scala quaranta con i vecchi della casa per anziani. Solitudine.
Sconfino e entro in un bar. Mi riprende la gioia di vivere, la sensazione di appagamento personale in mezzo al brusio di sottofondo della comunità. Apro il giornale e tutto cambia. Cosa c'è che non va ? Le parole.
Nella pagina degli spettacoli, s'intervista un noto cantante che si autodefinisce anarchico. Dice allegro che canta per la festa di Alleanza Nazionale, della Lega e dell'Unità. Lo dice come se fosse segno di anticonformismo: ma uno che sta con le ronde padane e poi corre dagli ex fascisti e poi fa un salto dai comunisti è opportunista. Uno così offende la parola anarchia, che evoca, nella sua accezione più alta, Sacco e Vanzetti, Luigi Bertoni , Kropotkin, gli orologiai del Giura ottocentesco. Tutto va a rotoli per l'uso improprio e strumentale di una parola.
Viviamo in un mondo in cui non si conosce più il significato delle parole. Oppure lo si conosce ma lo si adopera per farsi belli. O per ferire. Le parole sono pietre. Le parole sono rivoltelle cariche: occorre usarle con precauzione. Ci sono parole che rimangono fisse nelle memoria, come chiodi avvelenati. Ricordo una scritta su un muro di Tivoli, sulla via che conduce alla Villa Adriana: Più rum meno rom. Sembra una filastrocca ed è un'incitazione al linciaggio. Potrebbe apparire anche sui muri della mia terra natale, dove due mesi fa qualcuno ha sparato agli zingari. Dove, anni fa, si poteva leggere Senatur, a mare gli albanesi. Cambia l'etnia, ma la malvagità è la stessa. E tutto viene subito dimenticato. Anche i barconi dei dannati africani che oggi vengono respinti e vanno a finire nel "cimitero marino", per tornare alla letteratura. "Respingimento".
Le parole sono pietre. Le parole sono rivoltelle. Le parole sono rivoltelle cariche che talvolta lasciano partire il colpo.
Pubblicato il
05.06.09
Edizione cartacea
Anno XII numero 9
Rubrica
Confini
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