Prima notizia: con i suoi 7 milioni di vetture di una quindicina di marchi consegnate in tutto il mondo, Stellantis ha festeggiato il 2023, un anno record per la società nata dall’unione tra la francese Psa (Peugeot Citroën) e la Fca (Fiat Chrysler). 189,5 miliardi di ricavi netti con una crescita del 6% e utile netto record, più 11%, per un totale di 18,6 miliardi di euro. L’aumento degli utili è il doppio di quello del fatturato e dunque c’è un bel bottino da dividere tra gli azionisti, peccato che a chi l’ha prodotto – i lavoratori – finiscano soltanto 1,9 miliardi con un premio che per i dipendenti italiani vale mediamente 2.112 euro. Come ci ha insegnato Marx, quel che resta del bottino, 16,7 miliardi, chiamasi maltolto o plusvalore.

 

Seconda notizia: due grandi stabilimenti, Mirafiori e Pomigliano, rischiano di restare senza nuovi modelli vivacchiando grazie alla cassa integrazione garantita dai contribuenti italiani mentre le produzioni fuggono in Francia, a Est e a Sud del mondo. Il Ceo Stellantis Carlos Tavares, uomo di fiducia della Peugeot e della Francia presente nel capitale e nel Cda, attacca il governo italiano nonostante continui a finanziare direttamente (nel centro a Mirafiori per il riutilizzo di auto ed energie alternative per rigenerare parti di vetture in nome dell’energia circolare) e indirettamente (con la cassa integrazione) il gruppo; il governo italiano s’offende, Tavares ci ripensa, cambia tono e promette futuri radiosi per gli stabilimenti italiani da cui uscirà un milione di automobili l’anno. Ma non nel 2024, come chiedono sia i sindacati che Palazzo Chigi, bensì nel 2030. Ma il presidente di Stellantis, l’italiano John Elkann, cosa fa per difendere i siti e le produzioni italiane? Niente, è troppo preso dalle grane giudiziarie per scaldarsi per la sorte degli operai di casa nostra, ma qui già entriamo nella terza notizia. Nella lunga filiera dell’automobile in Italia lavorano alcune centinaia di migliaia di persone, dalla produzione alla componentistica, dalla ricerca e design alla commercializzazione, dalla pubblicità al trasporto. Se salta il quasi unico produttore, cioè la Fiat, che ne sarà di questo mondo e di un pezzo fondamentale della nostra economia? A Mirafiori, il gigante di ferro arrugginito, resta la 500 elettrica e sta andando a esaurimento il modello principale della Maserati, Pomigliano dovrà rinunciare al suo motore che è la Panda. Non sapendo come rabbonire Meloni e i sindacati, Tavares ha tirato fuori il suo jolly annunciando l’acquisto per 1,5 miliardi di euro del 21% della società cinese Leapmotor per produrre, proprio a Mirafiori, una city car elettrica a basso costo da 150mila volumi nel 2026, spostando a Pomigliano la 500 elettrica che non ha mai ingranato e continua a girare a folle producendo soprattutto cassa integrazione. Il jolly di Tavares convince poco il governo Meloni, sempre prono ai diktat a stelle e strisce che vede Pechino come il fumo negli occhi, che preferirebbe aprire le porte alla Ford, o al massimo alla Toyota. A Fiom, Fim e Uilm interessano i contenuti, gli accordi, i contratti, l’occupazione, la qualità del lavoro e non la geopolitica atlantica, dunque, perché dire no ai cinesi, se rispettosi dei vincoli sociali e ambientali?


Terza notizia, sottotitolo Family life: per la prima volta nei 125 anni di storia della Fiat e dei suoi derivati (Fca, Stellantis) le case private e le proprietà della famiglia Agnelli sono state “violate” dalla Guardia di finanza che, mandato di perquisizione alla mano, hanno controllato carte e documenti alla cerca di prove sulla probabile evasione fiscale per almeno 900 milioni di euro. Si tratterebbe di danaro imboscato al fisco e fuggito nei paradisi fiscali delle isole Vergini britanniche dove sono registrate società offshore di famiglia, passando per Vaduz (Liechtenstein) previo stazionamento in Svizzera, via notaio. E in Svizzera, scelta per non pagare le tasse in Italia, era la fasulla residenza della moglie di Gianni Agnelli. Capitali imboscati, ancor prima che al fisco, alla figlia di Gianni e Marella Caracciolo, Margherita Agnelli. Margherita è la madre di John Elkann, il presidente di Stellantis, e di Ginevra e Lapo, che ha denunciato di essere stata truffata dai figli di primo letto dopo la morte di Marella che a sua volta era diventata titolare dei capitali, beni mobili e immobili del marito, l’avvocato Gianni Agnelli. Così si è rivolta alla procura della repubblica ed è partita l’inchiesta della magistratura e di conseguenza le perquisizioni alle abitazioni storiche della dinastia Agnelli e della generazione degli Elkann. Nel mirino della finanza è finito anche Gianluca Ferrero, consulente fiscale di famiglia nonché presidente della Juventus. Margherita sostiene che i figli di primo letto l’hanno ingannata convincendola a firmare una liberatoria (rinuncia alla partecipazione all’eredità di Marella) in cambio di 1,3 miliardi di euro nascondendole però parte dei capitali, quelli fuggiti nei paradisi fiscali, e dall’inchiesta sarebbero emerse firme false di Marella sugli aggiornamenti del testamento. Margherita dichiara di aver aperto la guerra contro i tre figli per tutelare gli interessi dei figli di secondo letto, quelli avuti dall’aristocratico francese di origine russa Serge de Pahlen. Sono ben cinque, vi risparmieremo i loro nomi e le loro performance, come vi risparmieremo l’elenco delle società, delle partecipate e delle finanziarie di famiglia finite tutte nelle voraci tasche di John Elkann e, in misura minore, di Lapo e Ginevra. Le perquisizioni nelle blasonate ville della collina torinese hanno provocato uno shock nella Torino sabauda, è crollato un tabù. Come era successo nel novembre del 1971 quando il giudice Raffaele Guariniello ordinò la perquisizione delle sedi direzionali della Fiat per scoprire qualcosa come 350.000 schede sulla vita, i segreti, gli amori, le preferenze sessuali, l’orientamento politico e sindacale dei dipendenti della Fabbrica italiana automobili Torino. Un’operazione di spionaggio iniziata dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando l’ambasciatrice Usa Clare Boothe Luce impose a Vittorio Valletta di far fuori gli operai comunisti, socialisti o iscritti alla Fiom in cambio degli aiuti americani. L’inchiesta portò alla condanna, tra gli altri, di 5 dirigenti Fiat e di un alto dirigente della Questura. Ma le dimore private nessuno, prima di oggi, le aveva mai “violate”.

 

Tre notizie Fiat, in un mondo dove c’è chi suda e di lavoro rischia anche di morire come è successo nello stabilimento Stellantis di Pratola Serra al dipendente di una ditta d’appalto meno di una settimana dopo la strage operaia di Firenze; lo stesso mondo dove un pugno di eredi e di manager decide la vita, il lavoro e la morte degli operai; è il mondo della guerra in famiglia, dove su un solo punto gli eredi della dinastia torinese sono tutti d’accordo: la spartizione degli utili, anche vendendo i beni di famiglia come la Magneti Marelli, e magari evadendo il fisco del paese che per 125 anni li ha foraggiati.

Pubblicato il 

23.02.24
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