Occupazione, colonialismo, apartheid: sono alcuni dei titoli dei capitoli del recente libro pubblicato dalla professoressa Francesca Albanese, profonda conoscitrice e studiosa della questione israelo-palestinese, che da anni sostiene come non si possa chiedere ai Palestinesi di negoziare quando, nel silenzio internazionale, subiscono una quotidiana oppressione e l’espandersi delle colonie illegali. Il libro costituisce una forte testimonianza civile, basata su fatti accertati, documentati e incontestabili che ci permette di meglio comprendere il dramma in corso. L’abbiamo intervistata.

 

Professoressa Albanese, partiamo dal 7 ottobre 2023. Come valutare da un punto di vista del diritto internazionale l’attacco di Hamas?

Alla luce di ciò che è emerso, ossia che trai morti, i feriti e gli ostaggi vi sono donne e uomini innocenti, compresi anziani e bambi-ni, il diritto internazionale è inequivocabile: si tratta di crimini. Secondo l’ordinamento internazionale, coloro che sono soggetti ad un’oppressione di lunga data hanno il diritto di opporsi e resistere alla loro sottomissione. Ma questo non solleva dalle responsabilità quanto ai mezzi e ai metodi di azione. Il fatto che Hamas, nel suo rompere l’assedio, abbia colpito civili innocenti implica sicuramente cri-mini di guerra che vanno investigati, giudicati da un legittimo tribunale e puniti. E proprio inquanto crimini di guerra, di concerto con altri esperti indipendenti dell’ONU, ho espresso lamia ferma condanna nei confronti dell’azione di Hamas.

 

Per analizzare questo attacco occorre contestualizzarlo. Quale era la situazione dei territori palestinesi occupati, in particolare di Gaza, precedente all’attacco dello scorso autunno?

Il contesto era violentissimo in tutto il territo-rio palestinese occupato, incluse Cisgiordania e Gerusalemme Est. A Gaza, in 16 anni di asse-dio illegale, Israele ha imposto la chiusura di tutti i punti di accesso via terra, mare e aria, oltre che il controllo delle telecomunicazioni e di qualsiasi cosa uscisse ed entrasse nella stri-scia. Non solo: in questi anni ci sono state cinque guerre che hanno fatto a Gaza 5.000 morti, incluso oltre 1.000 bambini, e creato grande distruzione materiale, umana e culturale. Vi è poi la violenza strutturale di un’occupazione che dura da 56 anni, veicolo di una colonizzazione – 300 colonie per 800.000 coloni in Cisgiordania e Gerusalemme Est –che crea un ambiente coercitivo in cui i diritti umani sono costantemente violati. Questo contesto di violenza e abusi si è fatto più feroce negli ultimi anni. Nei primi 17 mesi di mio mandato prece-denti il 7 ottobre ho assistito ad un accentuarsi dell’intensità della violenza e ho potuto documentare l’uccisione di 60 israeliani da parte di palestinesi e quella di 460 palestinesi causata dall’esercito israeliano o da coloni armati.

 

È legittimo parlare di apartheid?

Certo. Lo sguardo d’insieme permette di vedere un sistema – un’intenzione ¬– che si può applicare al prisma giuridico dell’apartheid. L’occupazione è illegale perché non è più temporanea, è condotta in violazione di tutte le norme internazionali che regolano il regime di occupazione, ed è divenuta uno strumento per attuare discriminazione razziale, conquista e annessione. Per trasformarsi quindi in un regime di apartheid. Nella pratica questo significa confinamento fisico, confisca delle terre, sfratti forzati, applicazione discriminatoria della legge eccetera. Tutto ciò è sorretto da un dualismo legale che fa da ossatura al sistema: giurisdizione civile per i coloni, legge militare per i palestinesi.

 

La risposta di Israele all’attacco di Hamas è stata devastante, disumana. Dove si ferma il concetto di legittima difesa?

Israele ha invocato il diritto alla legittima difesa ai sensi dell’articolo 51 della Carta dell’ONU. Secondo la giurisprudenza della Corte internazionale di giustizia, l’attacco di Hamas non costituisce però un elemento sufficiente per revocare tale diritto. Israele è infatti la potenza occupante e la minaccia non arriva da un altro Stato bensì da un territorio che occupa. Ma mi lasci dire un’altra cosa.

 

Dica…

Quello che sta avvenendo a Gaza viola qualsiasi regola di diritto internazionale incluso il diritto umanitario e il diritto dei conflitti armati. I metodi e i mezzi utilizzati da Israele in questi mesi vanno ben oltre i limiti consenti-ti: uccidere indiscriminatamente civili durante azioni militari senza tenere conto dei principi di distinzione, precauzione e proporzionalità è un crimine di guerra. Le cifre sono lì a di-mostrarlo: in cento giorni di guerra sono stati accertati 24.000 morti, di cui 10.000 bambini; ad essi vanno aggiunti 7.000 dispersi e 50.000feriti in un contesto in cui la struttura ospedaliera è al tracollo. Ed è questo il punto che giuridicamente aggrava la responsabilità di Israele. Alcune delle azioni intentate contro la popolazione possono comportare crimini ben più gravi dei crimini di guerra. Nel frattempo anche in Cisgiordania i coloni sono stati nuovamente armati, e sollecitati da dichiarazioni come quelle del ministro Ben-Gvir. Qui sono stati smantellati interi villaggi e sono state già uccise 350 persone tra cui 80 bambini.

 

A muoversi a livello giuridico è stato il Sudafrica. Come valuta da un punto di vista simbolico

la sua decisione di avviare un caso presso la Corte internazionale di giustizia a carico di Israele per genocidio?

L’azione del Sudafrica è molto potente. È un’immagine forte quella di uno Stato del Sud del mondo, che emerge inoltre da una lunga storia di colonialismo e di apartheid, prendere le difese di un altro popolo abbandonato a sé stesso – sebbene sostenuto dalla solidarietà del mondo intero – mentre Israele è supportato attivamente da quegli Stati Uniti da cui l’Europa non riesce a distanziarsi.

 

E cosa ne pensa della decisione che è stata presa a l’Aja?

La Corte internazionale di giustizia ha ritenuto plausibile che gli atti di Israele potessero costituire un genocidio e ha emesso sei misure provvisorie, ordinando a Israele di adottare tutte le misure in suo potere per prevenire atti di genocidio, tra cui prevenire e punire l'incitamento al genocidio, garantire che gli aiuti e i servizi raggiungano i palestinesi sotto assedio a Gaza e conservare le prove dei crimini commessi a Gaza. Si tratta di una sentenza storica che offre la prima speranza concreta di proteggere i civili di Gaza che stanno sopportando condizioni umanitarie apocalittiche. L'ordine del tribunale è urgentemente necessario per proteggere l'esistenza stessa del popolo palestinese da azioni potenzialmente genocide che la Corte ha ordinato a Israele di fermare e prevenire.

 

Il premier israeliano Netanyahu ha però già dichiarato che non darà credito alla decisione della Corte di giustizia…

L’atteggiamento di mancanza di rispetto per quanto rappresenta la Corte di giustizia mostra una tracotanza che è stata nutrita e irrobustita da decadi di impunità. Israele non ha mai pagato per i crimini che ha commesso contro dei palestinesi degli ultimi 75 anni.

 

È forse anche a causa di questa impunità che oggi si è arrivati a questa situazione?

Certamente. Si è creata una cultura di sfida costante al diritto internazionale, di nullificazione e di annientamento della funzione normativa e correttiva del diritto e del sistema internazionale che lo regola attraverso l’ONU e gli organi giurisdizionali come la Corte di giustizia e la Corte penale internazionale.

 

Quale il rischio?

Il rischio è quello di mettere a repentaglio il sistema multilaterale che abbiamo costruito negli ultimi 75 anni che per quanto imperfetto si avvale di un quadro normativo chiaro e di strumenti correttivi per la condotta degli Stati. Se l’impunità dovesse prevalere nell’ambito di questo conflitto potrebbe fare passare il messaggio che bombardare a tappeto e uccidere così tanti civili è ammesso per la difesa dello Stato. Si legittima una condotta totalmente illegittima. Quello che succede in Palestina tra palestinesi e israeliani non è limitato a quella regione, ma rischia di allargarsi a macchia d’olio non solo in un conflitto regionale, ma rischia di inghiottire quel sistema che è là per proteggerci tutti se non lo facciamo funzionare.

 

Come se ne esce, Francesca Albanese?

Bisogna ripartire da cosa dice il diritto. Se volessimo analizzare il 7 ottobre come un momento spartiacque ci dovrebbe essere un processo che accerta la responsabilità degli uni e degli altri. Non si può però immagina-re una continuazione, un futuro, nell’attuale contesto di oppressione dei palestinesi. Io capisco che gli israeliani si sentano in pericolo, ma è proprio questa loro percezione dei palestinesi come pericolo che ha in qualche modo fatto da veicolo all’oppressione e alla sua giustificazione. Bisogna quindi partire da una presa di coscienza di chi è l’altro, di cosa ha subito, riconoscendo l’umanità dell’altro. Questo purtroppo è quello che manca in questo momento.

 

Pubblicato il 

06.02.24
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