Come disfarsi di un comparto in perdita senza scocciature collaterali, come ad esempio il destino dei propri dipendenti? Siemens ha trovato la formula magica che, in tempi di globalizzazione neoliberista, potrebbe presto essere utilizzata anche da altri grandi gruppi.

Circa un anno fa Klaus Kleinfeld, grande capo dell'azienda di Monaco di Baviera, si era presentato ad una conferenza stampa con un sorriso smagliante e una notizia esplosiva: il consiglio d'amministrazione, dopo affannose ricerche, aveva individuato il modo di separarsi dal settore della telefonia mobile, da anni in crisi nera, garantendo al tempo stesso un "futuro sereno" ai suoi oltre 3 mila dipendenti sparsi tra la Baviera e il Nord Reno – Vestfalia. La strategia messa a punto da Siemens prevedeva la cessione dell'intero comparto ai taiwanesi di BenQ e la contemporanea firma di un accordo strategico, a livello di brevetti e di marketing, con l'azienda di Taipei.
A storcere il naso alla notizia dell'accordo furono in molti, a partire dal sindacato che, nonostante gli impegni in merito di Siemens e dei taiwanesi, vedeva un "serio rischio" per i posti di lavoro in Germania. Inoltre, ma queste erano più che altro indiscrezioni degli ambienti finanziari, la reputazione di BenQ era tutt'altro che adamantina, sia quanto a solidità economica che in tema di "sensibilità sociale". Già allora i dubbi erano notevoli e questo in una fase in cui i più ignoravano ancora i dettagli dell'accordo tra bavaresi e taiwanesi. L'acquisto del comparto dei telefonini di Siemens, in realtà, era avvenuto a costo zero per gli asiatici, anzi, Monaco aveva pagato ben 350 milioni di euro a BenQ per disfarsi di un settore che procurava all'azienda perdite per oltre un milione di euro al giorno.
Nei giorni scorsi, a distanza di poco più di 12 mesi dalla firma dell'accordo, BenQ ha comunicato l'insolvenza del suo ramo tedesco e la conseguente chiusura degli stabilimenti. BenQ continuerà a produrre telefonini, ma lo farà esclusivamente in Asia. Inoltre molti sono gli scettici rispetto alla futura tenuta dei taiwanesi nel settore della telefonia. Se, infatti, la quota di mercato della Siemens nel 2004 era meno del 7 per cento, briciole rispetto a giganti come Nokia e Motorola, BenQ nel 2006 è riuscita addirittura a dimezzare il volume di affari sui telefonini, crollando ad appena il 3,5 per cento.
Le Cassandre che avevano profetizzato il disastro per i lavoratori ex Siemens hanno così avuto la magra consolazione di vedere confermati dai fatti i propri timori. Nonostante i penosi tentativi di giustificarsi sia da parte di Siemens che di BenQ e soprattutto alla luce dell'ignobile commedia degli ultimissimi giorni a base di reciproche accuse tra Monaco e Taipei, appare chiaro che la chiusura degli stabilimenti ed il licenziamento dei dipendenti erano decisioni già prese dai vertici delle due aziende all'atto della vendita. Per Siemens si trattava di demandare ad altri il lavoro sporco di togliere la spina ad un settore in perdita da troppo tempo. Anche in un paese come la Germania, ormai avvezzo all'arroganza senza limiti delle grandi aziende, era veramente troppo meschino annunciare il licenziamento di oltre 3 mila persone alle quali, solo nel 2004, si era imposto un contratto capestro (un modello che poi ha fatto scuola) a base di un aumento delle ore lavorative a parità di salario in cambio della garanzia dell'impiego. Per BenQ l'attrattiva dell'accordo stava soprattutto nella possibilità di accedere al know-how tecnologico e all'utilizzo del marchio Siemens anche per settori estranei alla telefonia. Tener in vita la produzione di telefonini in Germania, almeno per un anno, era probabilmente solo parte del lavoro di copertura per Siemens.
A Monaco i dipendenti protestano da giorni sotto la direzione della Siemens, ma il loro destino è segnato. Forse l'azienda, in uno slancio di generosità, istituirà un fondo di indennizzo per i licenziati, magari riducendo il previsto aumento degli stipendi (si parla del 30 per cento in più) di Klaus Kleinfeld e degli altri manager. Anche se, come ricorda lo stesso Klaus Kleinfeld, «Siemens non ha nessuna responsabilità giuridica e morale verso i suoi ex dipendenti». L'analisi al tempo stesso più lucida e spietata di questa vicenda l'ha fatta nei giorni scorsi un membro della commissione interna della BenQ - Siemens: «quanto accaduto sembra più il passaggio di un feudo (inclusi i servi della gleba-operai) da un vassallo all'altro che il XXI secolo».
C'è poco da aggiungere: ha ragione.

Pubblicato il 

13.10.06

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