In questo inizio 2024, il giornalista gambiano Sanna Camara ha soggiornato in Ticino a due riprese. Assieme ad altri colleghi del suo paese ha seguito il processo al Tribunale penale federale di Bellinzona nei confronti di Ousman Sonko, ex capo della polizia ed ex ministro dell’interno del Gambia. Sonko è accusato di crimini contro l’umanità commessi durante la dittatura guidata dal presidente Yahya Jammeh di cui era un fedelissimo. Fra le principali vittime di questo regime, durato dal 1994 al 2016, vi erano proprio i giornalisti. Due di essi sono accusatori privati nel processo svizzero contro Ousman Sonko. Durante il dibattimento hanno raccontato le torture e i soprusi di cui sono stati vittima. Abbiamo parlato di cosa significa fare il giornalista sotto una dittatura con Sanna Camara, lui stesso arrestato e costretto all’esilio durante gli ultimi anni del regno di Jammeh.

 

Sanna Camara e la collega Mariam Sankanu racconteranno la loro esperienza domani, martedì 12 marzo 2024 alle 18.30, presso l’associazione REC a Lugano, Via Ronchetto 7 (guarda locandina).

 

 

Sanna Camara, cosa voleva dire fare il giornalista in Gambia durante il regime di Yahya Jammeh?

 

Durante la dittatura i giornalisti hanno subito tantissimo. Due colleghi sono stati uccisi, uno dai soldati chiamati “jungler” che operavano su ordine di Yahya Jammeh, mentre un altro è scomparso senza lasciare traccia. Oltre cento colleghi hanno vissuto in esilio durante il regno di Jammeh. Il giornale dove lavoravo, The Independent, è stato uno dei principali obiettivi di questo regime. I nostri uffici sono stati attaccati con bombe molotov e la nostra tipografia è stata incendiata in diverse occasioni. Abbiamo anche subito più di una dozzina di arresti nei sette anni di vita del giornale. Alla fine, la testata è stata chiusa dalle autorità senza un ordine del tribunale. Le forze paramilitari hanno stazionato negli uffici per due anni per impedirci di riprendere. Siamo rimasti senza lavoro per tutto questo tempo e il nostro caporedattore e il nostro direttore hanno subito torture durante la detenzione alla National Intelligence Agency.

 

Dal punto di vista personale come ha vissuto tutto questo?

 

L’esperienza è stata in qualche modo traumatizzante. Per un giovane giornalista questi fatti sono motivi sufficienti per essere spaventato e non volere più fare questo lavoro. Ho continuato a farlo solo grazie alla passione, all’amore per il paese e alla forte fede nella democrazia. Sono stato arrestato personalmente tre volte durante la dittatura. In ognuna di queste occasioni ho subito detenzioni e interrogatori. A un certo punto, ho trascorso 48 ore in una cella di detenzione con dei criminali. Sono stato rilasciato su cauzione e ho dovuto presentarmi alla polizia per altre otto settimane. Per questo ho deciso di lasciare anch’io il mio paese, la mia famiglia e il mio lavoro e ho vissuto tre anni in esilio in Senegal.

 

Ci può descrivere quel periodo?

 

Mentre ero in esilio non potevo vedere la mia famiglia in Gambia. Lavoravo come freelance e quando ricevevo dei soldi li mandavo a loro in Gambia affinché attraversassero il confine e potessero venirmi a trovare in Senegal. I miei figli erano piccoli e la separazione da loro è stata la cosa più difficile per me. Quando nel 2017 è cambiato il governo, sono rientrato a casa per tornare dalla mia famiglia e partecipare al processo di ricostruzione e transizione in Gambia.

 

>> ASCOLTA IL NOSTRO AUDIO RACCONTO: Le speranze del Gambia passano da Bellinzona

 

Quando Jammeh ha lasciato il potere, lei è tornato in Gambia. Quali erano le sue aspettative?

 

Il governo di transizione aveva delineato un programma di riforme radicali nel sistema giudiziario, nel settore della sicurezza, nella funzione pubblica, nelle leggi elettorali e nel quadro generale di governance per consolidare le istituzioni nazionali che garantiscono lo stato di diritto, la separazione dei poteri e assicurano che non avvenga mai più quello che abbiamo passato sotto Jammeh. Ero entusiasta del mio paese e delle nuove opportunità che queste promesse offrivano per il suo futuro.

 

Lei è entrato così nello staff della comunicazione del nuovo presidente…

 

Sì, dopo un anno di lavoro come giornalista indipendente sono stato assunto quale responsabile dei media per il presidente Adama Barrow. Non ero il portavoce, ma piuttosto un professionista dei media che lavorava sotto il portavoce del Presidente.

 

A un certo punto ha deciso di cambiare e di tornare a fare il giornalista. Come mai?

 

Ho servito diligentemente quella carica per due anni. Tuttavia, durante questo periodo, mi sono reso conto che le promesse fatte al popolo non venivano mantenute. Le riforme sono state piuttosto lente a causa della mancanza di volontà politica. Il Presidente ha rinnegato le promesse a favore di un’altra agenda per sé e per i suoi compari. Non mi piacevano queste cose e mi sono espresso contro ciò che stava accadendo. Alla fine mi sono dimesso dal governo per tornare al mio lavoro di giornalista indipendente.

 

Qual è la situazione della stampa nel suo paese oggi?

 

Oggi godiamo di un alto livello di libertà rispetto ai tempi di Yahya Jammeh. La nostra classifica sulla libertà di stampa è notevolmente migliorata, come dimostrano i rapporti annuali dei vari Reporter senza frontiere o Freedom House. Abbiamo lottato per la libertà anche prima che Jammeh lasciasse il Gambia e abbiamo avuto un grande successo con le nuove riforme intraprese dal governo di Barrow, grazie alla Corte Suprema che ha messo in discussione la costituzionalità delle leggi draconiane sui media. È stato riconosciuto che la maggior parte di esse non rispettava gli standard internazionali per la libertà di stampa. Inoltre, il governo si è impegnato a riformare altre leggi esistenti. Tuttavia, nel paese abbiamo ancora circa un quarto delle leggi ereditato da Jammeh e dai governi coloniali. Quindi il processo di riforma è ancora incompleto.

 

Lei e altri colleghi gambiani siete venuti a Bellinzona per seguire il processo contro Sonko.  Perché era importante per voi essere qui?

 

Il principio cardine di ogni processo è che la giustizia non deve essere solo fatta, ma deve essere vista per potere avere un impatto. Il popolo gambiano è stato vittima delle brutalità che vengono attualmente perseguite qui in Svizzera. È giusto che la stampa sia qui per riferire del processo alla popolazione in patria. Il popolo ha il diritto di sapere...

 

Nel processo sono state discusse le atrocità commesse durante il regime: omicidi, stupri, torture. Tra le vittime c’erano anche alcuni giornalisti. Il processo è riuscito a far luce anche sugli attacchi alla libertà di stampa? Vuole raccontarci qualcosa al riguardo?

 

Due degli accusatori privati che hanno presentato l’accusa di tortura e trattamenti degradanti contro Ousman Sonko sono stati miei colleghi di lavoro in Gambia. Uno era il mio caporedattore e l’altro il mio direttore generale, che è stato anche presidente dei giornalisti del Gambia. Hanno affrontato esperienze orribili che, ancora oggi, mettono a rischio la loro vita. Sono stato testimone vivente di giorni orribili nella storia del giornalismo gambiano. Per me, il processo non si limita a raccontare queste vicende da un punto di vista procedurale e processuale, ma anche a rivivere quelle esperienze nella mia mente. È profondo. La sensazione che si prova quando si riflette su come i sogni di giovani e professionisti che servivano il loro paese sono stati infranti da una dittatura e il fatto che un personaggio di alto profilo come Sonko sia stato chiamato a rispondere del suo ruolo in quei crimini è un’esperienza straordinaria...

 

C’è un momento del processo che l’ha particolarmente toccata?

 

Ricordo quando Musa Saidykhan e Madi Ceesay sono stati rilasciati dopo 22 giorni di detenzione e tortura. Sono andato a trovarli e quello che ho visto sui loro volti mi ha devastato! Erano i miei capi e li ho seguiti come leader nella mia redazione. Lavoravamo insieme come una grande squadra, per il popolo e per la democrazia. Sottoporli a esperienze orribili come quella, e vederli raccontare personalmente ai giudici, qui in Svizzera, come Ousman Sonko abbia avuto un ruolo di primo piano in quei crimini, mi fa desiderare ancora di più la giustizia per loro e per tutte le vittime.

 

Che effetto le fa il fatto che questo processo si svolga in Svizzera e non in Gambia?

 

Fa male anche il fatto che questi processi (un processo simile ha avuto luogo in Germania, altri seguiranno negli Stati Uniti, ndr) non si svolgano in Gambia. Si svolgono in terra straniera, a migliaia di chilometri di distanza, quando la promessa di rendere conto di questi crimini era una promessa della campagna elettorale del nostro governo. Anche questo è uno schifo! Una sensazione simile si prova anche per altre vittime: una delle accusatrici private non è sopravvissuta alle torture subite. È morta mesi fa, anche se era parte civile ed era rappresentata da sua nipote, Fatoumatta Sandeng, il cui padre è stato ucciso in custodia a causa delle torture. Quindi per me questi casi sono speciali sotto molti aspetti, non solo come giornalista ma anche come gambiano.

 

Cosa si aspettano i cittadini del Gambia da questo processo?

 

Giustizia. Semplice. E confidano che i tribunali svizzeri la garantiscano per loro e per il bene dell’umanità.

 

La speranza è che Sonko venga condannato?

 

Non voglio commentare questo aspetto per ora, visto che il processo è in corso. Spero che sia fatta giustizia in qualsiasi forma il tribunale lo ritenga opportuno.

 

Come valuta la procedura svizzera, le indagini e il processo?

 

È completamente diverso dal nostro sistema in Gambia. Credo che qui in Svizzera il processo investigativo sia abbastanza approfondito e la Procura si prenda il tempo necessario per raccogliere le prove prima di presentarle ai giudici per il processo. In Gambia è completamente diverso. Molte volte i casi vengono respinti in tribunale per mancanza di prove schiaccianti e di indagini approfondite. A volte, il fatto di essere sospettati di un crimine o accusati è una ragione sufficiente per trattenere un sospettato senza prove tangibili, per poi essere assolti dal tribunale. Credo che possiamo imparare molto dal sistema giudiziario svizzero.

 

Come si è trovato in Svizzera?

 

Non è stato facile arrivare qui. Sono un normale giornalista, lavoro in modo indipendente e non avevo nessuna organizzazione che sponsorizzasse il mio viaggio. Credevo così tanto nel processo di transizione del Gambia che ho iniziato a fare reportage anche prima che questa fase prendesse ufficialmente il via. Nel 2016 sono stata all’Aia e ho avuto la possibilità di assistere a una sessione del tribunale che coinvolgeva Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, nonché a diversi eventi della 15ª Assemblea degli Stati parte. Ho raccontato queste e altre attività al popolo gambiano. Questa volta, alcuni colleghi giornalisti in Svizzera hanno raccolto fondi per pagare il mio biglietto, l’alloggio, il trasporto da e per i tribunali e i pasti giornalieri. È grazie a loro che tutto questo è stato possibile. Anche l’Ambasciata di Dakar è stata molto flessibile nel concedermi il visto per venire qui. Non ho modo di restituire questo favore al popolo svizzero. Dico solo grazie, a nome del popolo gambiano.

Pubblicato il 

11.03.24
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