Il lavoro, con il capitale fisico (le macchine), le risorse naturali (la terra, le materie prime), l’imprenditoria è uno dei fattori di produzione. Lo si definisce anche “capitale umano” ed è un brutto presentimento perché indica più qualcosa da togliere e mettere o sfruttare che delle persone. Sembra invece sottaciuto l’altro capitale quello finanziario, quello creditizio. In realtà investe tutto ed è impersonato nella imprenditorialità (il management) che preordina e dispone, condizionato da chi finanzia e pretende redditività.
 
La tipologia di managerialità dominante è d’importazione americana, con ovvia terminologia inglese. C’è così un termine che, dalle banche alle imprese dell’edilizia o della metallurgia, ai supermercati, all’amministrazione pubblica, negli ospedali o anche alla radiotelevisione, è diventato comune, quasi un ordine: “performance”. In italiano equivarrebbe a prestazione (meno efficace, non si usa), associato a produttività. La performance si misura stabilendo il rapporto tra una quantità prodotta e la quantità di fattori di produzione utilizzata per ottenerla (quante ore di lavoro, quanta energia o materie prime o semiprodotti utilizzati, quanta macchina con quanto investimento impiegati eccetera). In altre parole: è il costo per unità prodotta (di un bene o di un servizio reso). Lo scopo è di contenere il costo, ben sapendo che quello più comprimibile e a portata di mano è il costo del lavoro.
 
Ecco allora che, coscienti o meno, si sono adottati ovunque quelli che la “scienza manageriale” definisce i KPI, che significa “Key Performance Indicators” o indicatori di performance. Questi KPI si sono moltiplicati nel tempo. Performanza tecnica (quanti dossier, quanti atti medici o sanitari, quanti clienti serviti in un giorno da un salariato), performanza sociale (quale è il tasso di rispondenza dei clienti), performanza interna (quale il tasso di intesa o collaborazione tra colleghi, il clima aziendale), performanza fisica (il tempo di resistenza alla scrivania, alla cassa, alla catena di lavoro, senza andare in bagno o senza prendere una pausa), performanza mentale (prontezza psicologica in ogni circostanza).
 
Non si può negare che il culto della performanza è stato motore di progressi tecnologici ed anche umani e sociali. È però altrettanto vero che l’ossessione per ottimizzare alcune variabili quantitative ci ha condannati a distruggerne altre umane o derivanti da ciò che definiamo “il vivente”. A cominciare dal senso “umano” del lavoro (e quindi del suo rapporto con la salute fisica e psichica), non certo riducibile a un capitale “monetario”, teso solo alla massima redditività. Ma anche dai limiti fisici, naturali, del pianeta su cui viviamo. Ponendoci (società, impresa, individui) in una condizione di estrema fragilità quando le crisi sistemiche (climatiche, sociali, geopolitiche) si moltiplicano e battono alla porta.
 
Forse non è un caso che negli scorsi giorni un importante quotidiano economico-finanziario osava scrivere: “Dobbiamo finirla con il culto della performance che sta rendendoci così fragili e distruttori”. E faceva un confronto con la natura, con la fotosintesi: applicata in una azienda sarebbe il fallimento istantaneo; le foglie captano il cento per cento dell’irradiamento solare, ma il rendimento della fotosintesi è spesso inferiore all’uno per cento; ciò permette però alle piante di gestire le variazioni luminose; se infatti il rendimento fosse “performante”, secondo il metodo KPI, le piante brucerebbero.

Pubblicato il 

24.04.24
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